Cultura Firenze

da venerdì 23 Marzo 2018 a venerdì 13 Aprile 2018

Tano Festa su carta 1960-67 alla Galleria il Ponte

Parise novembre 1964 tecnica mista su carta 70×100 cm festa

In occasione dell’apertura di Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano a Palazzo Strozzi e in contemporanea con la mostra Aldo Mondino: quadrettature e non solo 1963-72 la galleria Il Ponte presenta nel suo spazio lounge un nucleo di opere su carta ed una tavola (Particolare da Michelangelo, 1964) di Tano Festa, realizzate fra il 1960 ed il 1967.

I lavori su carta svelano, più nitidamente delle sue celebri opere su tela o su legno coeve, quanto sia riduttiva l’etichetta “pop” attribuitagli fin dagli anni Sessanta, quale esponente della cosiddetta “Scuola di Piazza del Popolo”. Il tema centrale del suo lavoro, infatti, non è il consumismo di immagini nella società di massa, ma la sfida contro la dissoluzione che egli attua utilizzando il tempo della fotografia e soprattutto il tempo della Storia.

Per Festa l’opera su carta è perimetro, schermo, inquadratura di un dettaglio concepita come un’occlusione, finanche più estrema di quella sottesa dalle Finestre, dalle Persiane e dagli Armadi chiusi da lui realizzati dal 1962. La tradizionale pittura quale finestra aperta sul mondo, su carta diviene con maggior evidenza una finestra chiusa su se stessa, o meglio, un frame fotografico che, con la sua fissità, trasforma ciò che inquadra in cieca immagine bidimensionale e soprattutto la cristallizza nel tempo per garantirne l’eternità.

La dimensione temporale a cui Festa è più interessato è quella della Storia: egli concepisce l’opera quale testimonianza, prodotto e cimento della memoria culturale collettiva. L’utilizzo di immagini culturali anziché commerciali da lui intrapreso nel 1963, sembra nascondere una ragione ben più profonda: appropriarsi di elementi di opere d’arte del passato significa congelarle contro il tempo e la dissoluzione. Le sue citazioni dalla storia dell’arte sono doppi del reale e pertanto riconoscibili, ma attraverso l’intervento pittorico, disegnativo o a collage dell’artista, sembrano altre da sé, apparenze ambigue, veicoli di rivelazione della dimensione metafisica celata al di là del fisicamente visibile.

Tutte le opere esposte sono archiviate dall’Archivio Tano Festa.

Io nel getto dell’accusa mi aprirò nel sole
e marmoree braccia s’apriranno
sopra silenti chiostri
per invocare l’angelus
nel giorno del mio compleanno
(Tano Festa, 1958 )

Dove: Galleria Il Ponte Via di Mezzo, 42 / b, 50121 Firenze

Periodo: 23 marzo – 13 aprile 2018

Inaugurazione: venerdì 23 marzo, h 12:00-20:00

orario: da lunedì a venerdì ore 15.30-19.00

catalogo
Tano Festa su carta
testo di
Ilaria Bernardi
Edizione italiana / inglese
Gli Ori, Pistoia 2018

in contemporanea con la mostra:
Aldo Mondino
Quadrettature e non solo 1963-72

Numerose mostre e pubblicazioni hanno ormai permesso di storicizzare la sperimentazione artistica italiana degli anni Sessanta, analizzandone quadri, sculture, installazioni e azioni, le poetiche che questi lavori sottendono e i maggiori eventi espositivi che li hanno promossi. Non si può affermare altrettanto per quanto concerne le opere su carta, nonostante esse costituiscano spesso un laboratorio parallelo e non meno significativo rispetto alle altre tipologie di produzione considerate “maggiori”.  È il caso dei lavori su carta realizzati da Tano Festa tra il 1960 e il 1967 e ora esposti alla Galleria Il Ponte di Firenze. Essi svelano, più nitidamente delle sue celebri opere su tela o su legno coeve, quanto sia riduttiva l’etichetta “pop” attribuitagli fin dagli anni Sessanta in quanto esponente della cosiddetta “Scuola di Piazza del Popolo”. Il tema centrale del suo lavoro, infatti, non è il consumismo di immagini nella società di massa, ma la sfida contro la dissoluzione, che egli attua utilizzando il tempo della fotografia e soprattutto il tempo della Storia.

Il tempo della fotografia
Nel 1957 Festa si diploma in Fotografia Artistica all’Istituto d’Arte di Roma. È probabilmente dal mezzo fotografico che mutua quella “stralunata fissità di sguardo” quale assenza di partecipazione emotiva, percepita dal critico d’arte Cesare Vivaldi nei monocromi esposti in occasione della sua prima personale alla Galleria La Salita di Roma nel 1961.

La stessa “stralunata fissità di sguardo” connota anche le opere su carta coeve dove l’artista, abbandonata la gestualità informale e l’atmosfera surrealista dei suoi lavori di fine anni Cinquanta, stende omogenee campiture di rosso (Collage a. 13 A, 1960), colore che non a caso ricorda la luce utilizzata nella camera oscura durante l’impressione fotografica.

Nel rosso imbeve inoltre le strisce di carta che solcano il foglio orizzontalmente o più spesso verticalmente (15-N. 10, 1961), dividendo il supporto in sezioni irregolari – come già facevano le strisce di cartone in alcuni collages del 1960 (Collage n 1) –, a evocare una sorta di inquadratura fotografica.
Tuttavia, nei suoi lavori su carta il gesto dell’inquadrare si manifesta soprattutto con il disegno di un riquadro fatto di riquadri funzionali a separare aree di colori diversi (Senza titolo, 29 ottobre 1961), oppure parole differenti (Studio per Planche, 1962), altresì frammenti di una stessa riproduzione a stampa (Immagine orizzontale, 30 marzo 1963) o una presunta immagine nascosta sotto la scura pittura e gli elementi del suo titolo (Europa Planche, 7 aprile 1963).
L’inquadradura si manifesta anche con il ricorso frequente al dettaglio, o meglio a uno sguardo che, come il mirino fotografico, seleziona l’intero, fissa e ne coglie una parte. L’area circoscritta dallo specchio (Specchio, 13 marzo 1963), da ogni fotogramma dalla pellicola cinematografica (Senza titolo, 5 ottobre 1966) e da ogni unità della scacchiera (Senza titolo, 9 settembre 1966), includono infatti solo un particolare (il volto) della figura prescelta.

Per Festa l’opera su carta è perimetro, schermo, inquadratura di un dettaglio concepita come un’occlusione finanche più estrema di quella sottesa dalle Finestre, dalle Persiane e dagli Armadi chiusi da lui realizzati dal 1962. La tradizionale pittura quale finestra aperta sul mondo, su carta diviene con maggior evidenza una finestra chiusa su se stessa, o meglio, un frame fotografico che con la sua fissità trasforma ciò che inquadra in cieca immagine bidimensionale, e soprattutto la cristallizza nel tempo per garantirne l’eternità.

Il tempo della Storia
Sebbene la fotografia sia legata al tempo poiché, come sostiene Roland Barthes, fissa qualcosa che è stato e che non c’è più, la dimensione temporale a cui Festa è più interessato è quella della Storia. Egli concepisce l’opera quale testimonianza, prodotto e cimento della memoria culturale collettiva.
“Siamo in un paese dove invece di consumare cibi in scatola consumiamo la Gioconda sui cioccolatini” , dichiara nel 1967 per spiegare la ragione per cui la sua ricerca si differenziava dalla pop statunitense. In realtà, l’utilizzo di immagini culturali anziché commerciali da lui intrapreso nel 1963, sembra nascondere una ragione ben più profonda: appropriarsi di elementi di opere d’arte del passato significa congelarle contro il tempo e la dissoluzione.
Già un anno prima, all’inizio del 1962, aveva dimostrato di avere come suo personale “rovello” la sfida contro il tempo e la dissoluzione. Osservando la riproduzione de I coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck, racconta, “pensai con malinconia che gli Arnolfini sarebbero scomparsi molto prima del lampadario, che da tutta quella scena sarebbero stati i primi a uscire, mentre gli oggetti sarebbero rimasti ancora per lungo tempo al loro posto, testimoni muti e impassibili delle loro esistenze” . È da questa intuizione che erano nati gli oggetti d’arredamento inutilizzabili da lui costruiti in legno ex-novo, volti a superare, alla stregua del lampadario ne I coniugi Arnolfini, la durata limitata dell’esistenza umana assumendo la dimensione metafisica e atemporale dei dipinti di
Il lavoro di Festa sottende sempre una sfida contro la morte che si fa più evidente a seguito del suicidio del fratello Francesco Lo Savio in un albergo a Marsiglia nel settembre 1963. Poco dopo, infatti, inizia ad indagare il tema della nascita della vita mutuando dettagli di due capolavori di Michelangelo Buonarroti che la evocano: la Creazione di Adamo nella Cappella Sistina e l’Aurora delle fiorentine tombe medicee di Giuliano e Lorenzo de’ Medici (Senza titolo, 5 ottobre 1966 e Senza titolo, 9 settembre 1966).

Le sue citazioni dalla storia dell’arte sono doppi del reale e pertanto riconoscibili, ma attraverso l’intervento pittorico, disegnativo o a collage dell’artista, sembrano altre da sé, apparenze ambigue, veicoli di rivelazione della dimensione metafisica celata al di là del fisicamente visibile. Comportano cioè un’esperienza simile a quella che si ha guardando il nostro doppio allo specchio. È lo psichiatra Jacques Lacan a spiegarci che la nostra immagine riflessa è ambigua e provoca disagio poiché, guardandola, ci sembra di essere osservati da una parte di noi misteriosa di cui non siamo del tutto consapevoli.
Lo specchio con la sua intrinseca dimensione metafisica non poteva dunque esimersi dal divenire tema ricorrente nell’opera di Festa. Su esso si basa, in particolare, il progetto su carta de La sala degli specchi, ideato il 28 dicembre 1966 durante la sua permanenza a New York. Ciascuna delle quattro pareti di una sala avrebbe accolto alcuni dei suoi oggetti in legno inutilizzabili, ma soprattutto specchi finti e specchi veri, i quali, riflettendosi gli uni negli altri, avrebbero moltiplicato all’infinito quello spazio. Se è vero che lo specchio è elemento nodale anche ne I coniuigi Arnolfini di Van Eyck, in quel dipinto esso è funzionale a includere nella rappresentazione l’unico personaggio non visibile ma presente nella scena reale dipinta: il pittore che la dipinge. Ne La sala degli specchi di Festa, invece, lo specchio ha la stessa funzione di quello descritto quattro anni dopo da Barthes: “non capta altro se non altri specchi, e questo infinito riflettere è il vuoto stesso (che, lo si sa, è la forma)” , oppure, diremmo noi, è la vittoria della forma, o meglio dell’immagine, contro la dissoluzione.
A una riflessione sulla dissoluzione Festa sembra predestinato, essendo nato il 2 novembre, giorno dei morti. L’angelus, che nella poesia del 1958 qui pubblicata in epigrafe è invocato dall’artista nel giorno del suo compleanno, potrebbe quindi reinviare non solo alla preghiera cattolica sul mistero dell’Incarnazione, ma anche all’Angelus Novus descritto da Walter Benjamin, il quale, come Festa, ha le ali aperte ma lo sguardo fisso al passato, desideroso di salvare se stesso e la Storia dall’irruenta tempesta del trascorrere del tempo.

Tano Festa nasce a Roma nel 1938 e ivi muore nel 1988. Nel 1952 si iscrive all’Istituto d’Arte di Roma, diplomandosi nel 1957 in “Fotografia Artistica” con Alberto Libero Ferretti. Fin dagli inizi i suoi compagni sono i coetanei Mario Schifano e Franco Angeli, e altri poco più giovani come Renato Mambor e Sergio Lombardo. Si inserisce nella Scuola di Piazza del Popolo, dal nome della piazza dove artisti e letterati erano soliti incontrarsi, intorno ai tavoli del Caffè Rosati o nella sede della galleria La Tartaruga. La prima esposizione è alla “Mostra di Pittura” per il “Premio Cinecittà”, organizzata dal Partito Comunista Italiano nel 1958. Dagli esordi scrive poesie, così come costante è il suo interesse per la letteratura e per i poeti, come Sandro Penna. Nel 1959 approda alla galleria La Salita di Gian Tomaso Liverani, all’epoca una delle sedi espositive più prestigiose a Roma per l’arte contemporanea. Espone, inizialmente, in una collettiva, insieme a Franco Angeli e a Giuseppe Uncini. Nel 1960 Festa abbandona la gestualità informale e realizza i suoi primi dipinti monocromi. Privilegia il colore rosso solcato da strisce di carta, imbevute dello stesso colore, che scandiscono verticalmente la superficie del quadro. Nello stesso anno, con Angeli, Lo Savio, Schifano e Uncini , presenta al pubblico, con una serie di mostre, la sua nuova pittura anti-rappresentativa, aniconica, monocroma. Una prima mostra è alla galleria Appunto di Roma, poi a “Il Cancello di Bologna”, presentati dal poeta Emilio Villa. Gli stessi artisti, alla fine del 1960, inaugurano a La Salita “Roma 60. 5 pittori”, presentata da Pierre Restany, il critico francese che situò questi giovani tra Parigi e New York, tra i neodadaisti e gli artisti del Nouveau Realisme. Nel 1961 comincia a scandire la superficie dei suoi quadri non più con la carta, ma con listelli di legno disposti verticalmente a intervalli irregolari. Sono questi i nuovi lavori che presenta alla sua prima personale nel 1961 a La Salita. Partecipa al “XII Premio Lissone” e a partire da quest’anno si intensificano gli inviti alle mostre a conferma del crescente interesse che la critica rivolge al suo lavoro. Nel 1962 fanno il loro ingresso, nella sua arte, gli oggetti. Finestre, Porte, Armadi, oggetti del comune mobilio, ricostruiti dal falegname secondo il disegno dell’artista, privi di cardini, maniglie, serrature, perennemente chiusi. La Finestra rossa e nera è esposta in “La materia a Roma” a La Tartaruga di Plinio De Martiis, che segna l’inizio di una lunga collaborazione con questa importante galleria romana, dove in quegli stessi anni esponevano Kounellis e Twombly, Rauschenberg, Rothko, Kline. Lì Festa incontra Giorgio Franchetti, che allora collaborava con Plinio De Martiis e che diventerà il più importante collezionista dell’artista. Soggiorna a Parigi per aver vinto una borsa di studio del Ministero della Pubblica Istruzione, e con “Finestra n. 1? e “Omaggio a Vermeer” partecipa a “Nuove prospettive della pittura italiana” a Palazzo di Re Enzo a Bologna. E’ invitato a “New Realists” alla Sidney Janis di NewYork, dove propone: “Persiana”. L’importante iniziativa, presentata da John Ashbery e da Pierre Restany, riunì i principali artisti internazionali interessati alle poetiche dell’oggetto, quelli della corrente definita in America New Dada e in Francia Nouveau Realisme, dal cui ambito emergerà, di lì a poco, la Pop Art.

Ancora, nel suo repertorio I’Obelisco e la Lapide, mentre nel corso dell’anno successivo nei suoi mobili, all’interno dei telai, compaiono le prime scritte. Al 1963 risalgono anche i suoi primi quadri con citazioni da artisti del passato; muore il fratello Francesco Lo Savio. Tra le prime citazioni di Festa vi è anche La grande odalisca di Ingres, ma le immagini tratte da Michelangelo saranno le più frequenti. In questi lavori l’immagine antica, tratta spesso da una fotografia in bianco e nero di matrice Alinari, è stampata su carta ed incollata al supporto ligneo. Su questa immagine poi l’artista interveniva con lo smalto, cancellandone alcuni particolari. Nel 1965 il primo viaggio a New York dove incontra Lichtenstein e Oldenburg; sperimenta la tecnica del ricalco a mano di immagini proiettate o riportate su carta velina. In alcuni dipinti compaiono le sagome di pennelli, ma anche di martelli, cacciaviti e seghe, che ricordano certe composizioni di Jim Dine e di Jasper Johns. Realizza una serie di cieli, Cielo meccanico, Cielo newyorkese, Grande nuvola. Con Schifano viaggia in diverse località dell’America Latina sulle orme degli amati poeti della beat generation. E’ invitato alla IX Quadriennale d’Arte di Roma (vi esporrà poi nel 1972 e 1986). Nel 1966 presenta un’antologia del suo lavoro da Schwarz a Milano, accompagnata da un catalogo con un testo di Maurizio Fagiolo dell’Arco e partecipa a “Cinquant’ anni Dada. 1916-1966” che si tiene presso il Civico Padiglione d’Arte Contemporanea a Milano a cura di Arturo Schwarz. Di nuovo a New York, nel 1967, in uno studio al Chelsea Hotel, dove dipinge solo immagini da Michelangelo ed intitola tutte le opere: Michelangelo according to Tano Festa. Nel 1968, realizza alcuni film: Lo Savio il sogno felice, Patrizia fotografare è facile, lo amo De Chirico. In molti dipinti realizzati tra il 1967 ed il 1969, su uno sfondo bianco o azzurro, è tracciato, in nero o in blu, un disegno compositivo essenziale e geometrico che contiene scritte con il normografo o sagome di immagini proiettate. Nel 1970 sposa Emilia Emo Capodilista, e si trasferisce nella casa di famiglia della moglie, a Pernumia (in provincia di Padova); nasceranno due figlie, Anita e Almorina. L’anno seguente presenta i suoi nuovi lavori a La Tartaruga in “I quadri privati”, in cui utilizza i ritratti fotografici ingranditi di alcuni dei suoi familiari. Il ritratto diventerà in seguito un genere sempre più frequentato nella sua arte.

All’inizio degli anni settanta sperimenta una nuova tecnica, più affidata alla materia pittorica, al gesto, al colore, e partecipa a “Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/70” – curata da Achille Bonito Oliva per gli Incontri Internazionali d’Arte al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Due anni dopo la personale da Levi di Milano, presentata da Tommaso Trini, in cui espone i nuovi quadri della serie: Omaggi al colore; nel novembre dell’anno successivo partecipa alla grande rassegna internazionale “Contemporanea”, curata da Achille Bonito Oliva per gli Incontri Internazionali d’Arte ed allestita nel Parcheggio di Villa Borghese a Roma. Nel 1976 incontra la giornalista Antonella Amendola, che gli sarà accanto fino alla sua scomparsa, e da Gian Enzo Sperone a Roma tiene “Storia familiare degli utensili”, dove presenta tre installazioni e i due grandi quadri tratti dal Las Meninas di Velasquez, dipinti con lo smalto e l’anilina sulla base di una tela emulsionata. Nel 1978 è invitato alla Biennale di Venezia, dove tornerà ad esporre nel 1980, e nel 1984. Nei suoi ultimi dieci anni di vita, si dedicherà soprattutto alla pittura ad acrilico. Il ritratto sarà il soggetto più frequente. Numerose saranno le mostre che nel corso degli anni ottanta documenteranno questo suo “ritorno alla pittura”. Tra le altre “Miraggi”, allo Studio Soligo di Roma, nel marzo 1981, nella quale apparvero fantastiche ed enigmatiche figure alate. A partire dalla fine degli anni settanta compaiono i Coriandoli, la cui tecnica consisteva nell’applicazione gestuale di coriandoli su una base preparata ad acrilico, con colori squillanti: rosso, verde, blu, (ma frequente è anche il fondo nero). Poco dopo la scomparsa dell’artista, viene inaugurata un’antologica, a cura di Achille Bonito Oliva, nei locali dell’ex Stabilimento Peroni, oggi Museo di Arte Contemporanea di Roma. Un altro importante omaggio al suo lavoro è l’antologica, ospitata nell’ambito della XLV Biennale di Venezia, nel 1993, a Ca’Pesaro, “Fratelli”, perché vi furono esposte, insieme alle sue, anche le opere del fratello Francesco Lo Savio, su invito di Achille Bonito Oliva e curata da Maurizio Fagiolo Dall’Arco. L’ampio regesto del curatore, pubblicato in quell’occasione, rimane uno strumento indispensabile per l’esegesi dell’artista.

Fonte: Ufficio Stampa

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