Teatro Prato

da martedì 6 Novembre 2018 a domenica 11 Novembre 2018

Quasi Niente al Teatro Fabbricone di Prato

Dopo il debutto a Lugano a inizio ottobre e il passaggio a Romaeuropa Festival e prima di una lunga tournée europea, da martedì 6 a domenica 11 novembre al Teatro Fabbricone a Prato arriva QUASI NIENTE, il nuovo spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, una significativa coproduzione internazionale cui partecipa il Teatro Metastasio di Prato insieme a grandi teatri e festival nazionali e europei (feriali ore 20.45, sabato ore 19.30, domenica ore 16.30).

A partire dall’immaginario del film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni, con QUASI NIENTE il duo Deflorian/Tagliarini scompone la solitudine alienante cui la società costringe la sua protagonista Giuliana per riflettere sulla parabola di disagio che ha precluso all’individuo ogni possibilità salvifica di inventiva.
In scena tre donne e due uomini (accanto al duo: Monica Piseddu, Francesca Cuttica e Benno Steinegger) lavorano attorno alla figura di Giuliana, moglie e madre, interpretata nel film da una giovane Monica Vitti. È lei, “selvatica vestita elegante”, a farsi carico di quella marginalità che da sempre attrae i due artisti, chiave di lettura del mondo intero. Perché QUASI NIENTE ci parla non solo del disagio, della fragilità, delle crepe del reale, ma anche della fanciullezza di una donna che il mondo non sembra più interessato ad ascoltare. Sullo sfondo una società malata, priva di margini d’immaginazione e schiacciata da quel ‘realismo capitalista’ che ha soppresso ogni passato e ipotecato ogni futuro. Spetta al teatro, con il suo ‘impotente fantasticare’, fungere ancora una volta da cerniera tra il dentro e il fuori, tra l’immagine e il reale a essa sotteso.

Dalla scheda dello spettacolo:
“Oggetto di partenza del nostro nuovo progetto è Il deserto rosso, lo straordinario film del 1964, prima opera a colori di Michelangelo Antonioni, che a partire – sembra – da un breve racconto di Tonino Guerra vede in scena una straziante e fanciullesca Monica Vitti. Giuliana, moglie e madre, attraversa il deserto – in una scena veramente rosso – della sua vita senza che nessuno possa realmente toccarla, senza toccare a sua volta nessuno. Nemmeno l’incontro con Corrado, amico del marito, per tanti versi simile a lei, riesce a cambiare le cose. Poche le parole, alcune talmente belle da diventare proverbiali (“Mi fanno male i capelli”, la più nota, presa in prestito da una poesia di Amelia Rosselli) e protagonista assoluto il paesaggio, una Romagna attorno a Ravenna trasfigurata dal regista (“ho dipinto la realtà” dichiarava all’epoca) in un mondo dove malattia e bellezza coincidono con un cortocircuito di senso e di sensi che ancora oggi ci sbalordisce. Un oggetto ingombrante, visto, discusso e sviscerato.

A differenza di Janina Turek, la protagonista del nostro lavoro del 2012, Reality e delle pensionate greche di Petros Markaris che abbiamo abitato in Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni del 2013, entrambi oggetti di cui pochi o nessuno si era occupato, Il deserto rosso è invece uno delle opere centrali – hanno scritto – non solo del cinema italiano e internazionale, ma delle arti visive del Novecento.

La nostra scelta è quella di essere cinque in scena, tre donne, due uomini. Prima di tutto per evitare il triangolo borghese, moglie-marito-amante, per avere la possibilità di lavorare liberamente attorno alla figura di Giuliana e infine per rispondere alla tensione anti-realistica del film. Infatti, se questa opera ci ha colpito è anche perché il film non è la sua trama, e questo ci corrisponde. Da sempre, nei nostri lavori siamo attratti da figure marginali, dimesse (quelle lucciole fisiche e di pensiero così ben descritte da Georges Didi-Huberman), da sempre ci descriviamo nelle loro cadute e fallimenti. Figure apparentemente lontane dal cinema Antonioni e dalle sue ambientazioni medio borghesi. In realtà, Giuliana fa pienamente parte di questa galleria di persone storte, riuscite a metà. È una ‘selvatica vestita elegante’, a suo modo una Kaspar Hauser. C’è qualcosa in lei che ci parla di una ricerca di verità che spesso, nella nostra sempre maggiore “capacità” di stare al mondo, abbiamo perso. Ci siamo adattati. Accomodati, abbiamo azittito domande come quelle che lei si pone: “Ma cosa vogliono che faccia con i miei occhi? Cosa devo guardare?”. Il nostro vuole essere un lavoro non solo sul disagio, la fragilità, sulle crepe, ma anche sulla fanciullezza di una donna che il mondo non sembra più interessato ad ascoltare.

“C’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cosa sia. E nessuno me lo dice” dice Giuliana. Il deserto rosso si interroga in maniera personalissima su quel cambiamento epocale che tutti gli artisti del dopoguerra hanno sofferto e raccontato: nel caso di Antonioni si è parlato di alienazione, Pasolini lo chiamava apertamente genocidio culturale.

Quell’alienazione – termine non a caso desueto – ci appartiene talmente tanto che non siamo più in grado di avvertirla.
La cerniera tra dentro e fuori in quest’opera è talmente sottile che non possiamo che essere sollevati dal fatto che il film inizi durante uno sciopero, che lo sfondo sia lo sfruttamento di operai chiamati a sradicarsi dalla loro terra per andare a lavorare all’estero. L’osmosi tra i due livelli del racconto in Antonioni non è né ideologica né risolutiva, ma scava, intreccia, sposta. Siamo di nuovo di fronte al rapporto tra figura e sfondo che abbiamo affrontato ne Il cielo non è un fondale (2016).

Dove siamo ora?
È’ qui che Quasi niente racconta la nostra distanza da Il deserto rosso. Come se fossimo tutti Giuliana e nello stesso tempo nessuno fosse più lei. Più che essere ammalati in quanto individui, lo siamo come società e senza quel margine di immaginazione (“dietro al nostro fantasticare c’è il mondo intero” poteva scrivere Antonioni a Mark Rothko in una lettera) che rende Giuliana la figura più vera, più singolare, più viva del film. Ora siamo in un mondo che sembra aver perfettamente compiuto quella parabola di disagio, rendendola addirittura positiva e insuperabile. Il mondo che un giovane teorico della cultura, Mark Fisher, ha definito del “realismo capitalista”. Un realismo che non è come gli altri: è un realismo integrale, senza porte e senza finestre, che ha preventivamente escluso ogni altra visione del mondo, sussunto ogni passato, ipotecato ogni futuro. Ma è proprio questa la scommessa marginale del teatro: continuare a far intravedere il “mondo intero” dietro un impotente fantasticare e i limiti di “questo mondo” dietro la potenza con cui schiaccia i singoli.

Intorno allo spettacolo venerdì 9 novembre a fine replica sul palco del Fabbricone è previsto il terzo incontro de LO SPETTATORE ATTENTO, con gli attori che condurranno lo scrittore Cristian Raimo ad un confronto sui temi dello spettacolo, sulle proprie ‘urgenze creative’, sulla poetica e sulla pratica teatrale.

BIGLIETTI DA 12 A 17 EURO

Informazioni:

Teatro Metastasio – tel 0574 608501 – Cristina Roncucci 0574/24782 (interno 2) – 347 1122817

Quasi niente-foto Luca Del Pia

Fonte: Ufficio Stampa

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