Spettacoli Montelupo Fiorentino

giovedì 6 Dicembre 2018

Marco Cantini, cantautore fiorentino, presenterà il suo lavoro La Febbre incendiaria al MMAB

Il MMAB si afferma sempre più come il fulcro della cultura montelupina e ospita iniziative trasversali a diversi generi e linguaggi. Il prossimo 6 dicembre allre 21.30 in programma un appuntamento degno dei più rinomati caffè letterari dedicato a musica e letteratura. Il primo appuntamento di questo genere vede come protagonista il cantautore fiorentino Marco Cantini che presenterà “La febbre incendiaria”, un concept album ispirato al romanzo “La Storia” di Elsa Morante.

Quattordici tracce per trasformare in musica uno dei capolavori della narrativa italiana del Novecento, che la stessa autrice aveva pensato come “romanzo popolare”, diretto a un pubblico il più vasto possibile, affinché il patrimonio di conoscenze che costituisce il nostro passato potesse arrivare con la sua forza e il suo bagaglio di insegnamenti alle generazioni future.

I musicisti che hanno registrato questo album con Cantini, e che suoneranno dal vivo al MMAB, hanno all’attivo un curriculum artistico di elevato livello. Francesco Fry Moneti è il violinista dei Modena City Ramblers, Riccardo Galardini è il chitarrista che ha seguito in tournée Ivano Fossati e ha diretto l’orchestra al Festival di Sanremo per numerose edizioni, mentre Gianfilippo Boni ha collaborato con Lucio Dalla, Gianni Morandi, Samuele Bersani.

Insieme restituiranno al pubblico di Montelupo una versione unplugged delle canzoni presenti nell’album, mentre il professor Alessandro Camiciottoli, docente di letteratura, dialogherà
con il cantautore per confrontare l’opera letteraria con l’operazione musicale messa in campo da Cantini.

L’ingresso è libero e per l’occasione resterà aperto anche il MMAB Caffè fino al termine del concerto.

Il cantautore fiorentino, al suo terzo album, si racconta così in questa intervista a cura di Cristina Trinci, in attesa di conoscerlo e ascoltarlo dal vivo al MMAB.

Marco, prima di tutto puoi raccontarci qualcosa di te, quali sono stati i tuoi studi, la tua professione e le tue passioni?

Sono laureato presso la facoltà di Architettura di Firenze, e svolgo la professione di architetto da circa dieci anni. Mi ritengo una persona curiosa, con molte passioni che hanno spesso a che fare con le forme di creatività e di libera espressione.

Quale ruolo hanno avuto nella tua formazione artistica i tuoi famigliari, gli amici e i tuoi insegnanti?

Mio padre Massimo Cantini è un grande artista che ha fatto della pittura il suo lavoro sin da quando era molto giovane. Di conseguenza, sono nato e cresciuto nutrendomi di arte e di bellezza: in questo, non potendo scegliere dove e come venire al mondo, sono stato fortunato. Ma i miei veri insegnanti – decisivi nel mio modo di fare canzone – restano da sempre certi grandi cantautori italiani emersi negli anni ’70. La loro “scuola” è stata fondamentale.

La tua laurea non è molto attinente alla tua professione artistica. Hai mai pensato di frequentare il conservatorio?

Sinceramente no, e per un motivo ben preciso: il mio è soprattutto un desiderio innato di creare, di raccontare, di esprimermi attraverso musica e parole. Dove la chitarra è paragonabile alla penna dello scrittore, al pennello del pittore o alla matita dell’architetto. L’obiettivo non è mai stato quello nobile di diventare un vero musicista, un tecnico dello spartito, bensì di creare musica attraverso un’innata propensione alla melodia o alla stesura di un testo. Al personale appagamento che mi ha sempre restituito la scrittura di una canzone.

Dal punto di vista musicale, quali passi hai seguito per arrivare fin qui?

Faccio musica, ormai, da circa venticinque anni: ho attraversato un percorso contorto ma di costante crescita, con esperienze fallimentari e qualche scelta sbagliata che certamente non rifarei. Ma oggi prendo atto che niente è stato inutile, soprattutto gli errori sono stati molto importanti. Al momento giusto sono arrivati gli incontri, per me decisivi, con eccellenti musicisti che hanno saputo capire e valorizzare al meglio il mio linguaggio. Ritengo che il mio precedente album, “Siamo noi quelli che aspettavamo”, abbia rappresentato una svolta qualitativa di basilare importanza nel mio percorso artistico.

Quali sono le difficoltà che hai incontrato in questo percorso per raggiungere il livello di attenzione che ti dedica oggi la stampa di settore e quella generalista?

Le difficoltà per chi fa musica in Italia nel mondo dell’underground, sono davvero molte e di svariato genere. Ma riallacciandomi alla precedente domanda, credo che l’aspetto più importante sia superare gli ostacoli dentro se stessi, limare i propri difetti attraverso anche una lucida autocritica che non deve mai mancare. Penso che passi anche da questo la strada per migliorare, traendo soddisfazione in primis nell’annotare i propri progressi e dopo, certamente, anche dalle attenzioni di chi ascolta.

La diffusione dei social secondo te ha avuto importanza per far conoscere il tuo lavoro?

Direi di sì. I social sono un buon mezzo per promuovere la propria arte, ma è ovvio che da soli non possono bastare e non certificano di certo la qualità, il curriculum, o la storia di un artista.

Quali incontri hanno segnato un punto di svolta nella tua carriera artistica?

Tra i tanti, in ordine di tempo, ce ne sono stati almeno due di vitale importanza: il primo con Gianfilippo Boni, musicista e cantautore con il quale ho co-prodotto nel 2016 il concept album “Siamo noi quelli che aspettavamo” (disco sui movimenti studenteschi e le avanguardie artistiche del ’77 in Italia) di cui accennavo in precedenza. Il secondo con Francesco “Fry” Moneti, violinista e polistrumentista dei Modena City Ramblers. Anche a quest’ultimo devo moltissimo: per il prezioso contributo – fatto di grande esperienza e talento – che ha dato ai miei dischi, e per il costante entusiasmo con il quale mi ha sempre supportato.

Come mai hai scelto proprio “La Storia” di Elsa Morante per questo tuo terzo lavoro?

Perché racchiude temi e concetti con i quali, purtroppo, dobbiamo ancora oggi fare i conti: lo spietato sistema della sopraffazione, la crudeltà di ogni guerra, la feroce condanna verso ogni diversità. Ed Elsa Morante ne era ben consapevole, altrimenti non avrebbe sottotitolato l’opera “uno scandalo che dura da diecimila anni”. Oltre a questo, la mia ferrea volontà di non perdere le tracce con pagine importanti del nostro passato, e di conseguenza con la nostra identità. In breve, per mantenerci vigili con la Storia, e nel contempo per restituire dignità a tutte le vittime invisibili da essa prodotte.

I tuoi testi sono disseminati di termini alti, a volte anche difficili da usare in una canzone. Come nasce il tuo stile di scrittura? Hai ripreso espressioni direttamente dal libro della Morante?

Non saprei dirti con precisione in che modo nasca il mio modo di scrivere. Sicuramente è il frutto dei tanti ascolti e delle tante letture di una vita, sviluppando e affinando nel tempo un linguaggio che principalmente ricerca sempre l’importanza della forma e dei contenuti. Da “La Storia” ho tratto alcune espressioni che ho ritenuto significative per consolidare il senso dell’intero lavoro, adattandole alle esigenze armoniche e melodiche dei brani.

Raccontare la letteratura in un disco è un’operazione ardita, che spesso è percepita come lontana dai gusti della massa. È un disco elitario, il tuo? Oppure hai l’ambizione di raggiungere il grande pubblico?

Non lo definirei un disco elitario. In fondo è liberamente tratto da un libro il cui linguaggio, volutamente popolare – costruito sul modello della narrativa ottocentesca -, venne adottato dalla scrittrice anche per arrivare ad un pubblico più numeroso possibile. Detto questo, sono consapevole che possa non rispecchiare esattamente il senso estetico della massa, ma ciò non è un buon motivo per snaturarmi: scrivo soprattutto per me stesso, e mai per venire incontro ai gusti e alle esigenze di un target. Credo debba essere così per ogni artista intellettualmente onesto.

Come hai incontrato i musicisti professionisti che ti accompagnano in questo disco e come mai avete scelto la registrazione live?

Molti di loro – conosciuti grazie al lavoro in studio sviluppato con Gianfilippo Boni – avevano già suonato nel precedente album. Un discorso a parte merita Francesco “Fry” Moneti, contattato dal sottoscritto nel 2014 per il mio desiderio di avere l’inconfondibile suono del suo violino in una canzone di “Siamo noi quelli che aspettavamo”. Per quanto concerne la scelta di registrare il disco live in presa diretta, è stata ponderata assieme allo stesso Boni in virtù dell’alto potenziale, in termini di musicisti, sui quali sapevamo di poter contare: maturi e straordinari professionisti che non hanno tradito le attese, qualificando l’intero lavoro grazie alla magistrale empatia che li contraddistingue.

Grazie Marco per aver accettato il nostro invito!

Intervista a cura di Cristina Trinci

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Fonte: Ufficio Stampa

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