Cultura Firenze

venerdì 23 Febbraio 2018

Al Centro Popolare Autogestito Firenze Sud presentazione del libro “Il lungo cammino della Palestina 1917-2017”

“Il lungo cammino della Palestina (1917-2017)”

Venerdì 23 Febbraio, alle ore 19:00 al Centro Popolare Autogestito Firenze Sud, presentazione del libro “Il lungo cammino della Palestina (1917-2017)” con la curatrice Alessandra Mecozzi.

Introduce l’associazione di amicizia italo-palestinese.

Dalla prefazione di Wasim Dahmash:
Questo libro è utile: documenta, in modo semplice e chiaro, i dati che lungo tutto un secolo stanno al fondo del ‘problema israelo- palestinese’. Organizzato per schede tematiche – sui cui contenuti e autori rimando all’Indice e alla Nota redazionale curata da Ales- sandra Mecozzi –, e quindi di facile consultazione, il volume si aggiunge solo in parte ai molti che trattano il tema israelo-palestinese. È utile anche perché ha il merito di non fornire informazioni precostituite: per quanto è possibile, su un argomento controverso come pochi, gli autori hanno adottato un punto di vista che non è quello della classe politica palestinese né, come è ovvio, quello delle élite sioniste, ma si attengono all’esposizione di fatti e fenomeni. Nel presentare questo lavoro evidenzierò due punti: in primo luogo la ragione per cui del ‘problema israelo-palestinese’ non si parla, avvolto com’è da un ostracismo tacito che coinvolge diversi livelli di responsabilità, delle istituzioni in generale, la politica, le università, i media. Una ragione che da sola basterebbe a motivare la pubblicazione del volume.

Nel secondo punto tenterò di precisare che il tipo di colonialismo di cui la Palestina è stata fatta oggetto, è un caso di colonialismo d’insediamento. L’opacità che circonda la vicenda palestinese, e che questo libro contribuisce a chiarire con efficacia, dipende da una politica internazionale precisa, a cui i mass-media si accodano, opacità che tende a celare i fatti, o misfatti, per la semplice ragione che quei fatti sono indifendibili, sotto qualsiasi aspetto, legale e giuridico, storico e morale. Quale codice può ammettere la tortura, non solo degli adulti, ma anche dei bambini? Come si può giustificare il fatto che i bambini siano giudicati dalle corti marziali o siano bruciati vivi? Quando nessuna giustificazione può essere addotta per rendere accettabile la brutalità che contraddistingue qualsiasi atto d’aggressione del più forte contro il più debole, si cerca semplicemente di nasconderlo, per quant’è possibile, oppure si tenta di far sì che i modi di agire dell’aggressore sembrino accettabili in quanto giustificati come ‘giuste’ pratiche di ritorsione.

L’aggressione, con radici profonde nella lunga esperienza coloniale, soprattutto inglese, ha insegnato come si fa ad ammantare il colonialismo di nobili ideali: un espediente ormai consolidato per nascondere interessi precisi. Le spedizioni militari coloniali non da oggi sono state presentate come campagne di ‘evangelizzazione’ o di ‘civilizzazione’, di ‘intervento umanitario’, di ‘sostegno alla democrazia’ o di ‘lotta al terrorismo’, a costo di milioni di vittime. In ogni guerra il dominio dell’informazione è sempre stato in – dispensabile per diffondere una narrazione di parte, a maggior ragione lo è nelle guerre coloniali e, nella loro versione più feroce, nel colonialismo d’insediamento, come è il caso dell’occupazione della Palestina, un caso di colonialismo che sopravvive e che continua ad aver bisogno di nascondere i suoi metodi e i suoi obiettivi con cortine mediatiche. Ma che si tratti di un caso di colonialismo d’insediamento è ben noto per la ricchezza degli studi sul tema, da quelli di Maxime Rodinson a quelli più recenti di Lorenzo Veracini, per citare solo qualche nome. Si può pure pensare che l’epoca coloniale si sia conclusa con la decolonizzazione negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Ma seppure questo può dirsi per la presenza militare diretta della potenza coloniale, non altrettanto si può dire del sistema di gestione del governo, del territorio e dell’economia che il colonialismo diretto ha continuato a imporre. Il sistema, cosiddetto oggi ‘neo coloniale’, è vivo e vegeto. In alcuni casi il colonialismo è stato sconfitto sul campo con la vittoria della lotta per la liberazione, come in Algeria o in Vietnam; il colonialismo d’insediamento è finito, come nel Nord America, con lo sterminio delle popolazioni autoctone; in altri casi invece i coloni si sono rassegnati a convivere con i nativi, ovvero a non sostituirsi ad essi, come è successo in Sudafrica.

Il colonialismo in Palestina invece sopravvive nella sua forma tradizionale, senza trionfare e senza soccombere: la popolazione autoctona non è riuscita, in un lungo secolare percorso annunciato dal titolo di questo libro, a respingere l’aggressione coloniale che pretende di sostituirsi a essa. Nello stesso tempo nemmeno la potente forza coloniale sionista è riuscita nel suo intento, nonostante le immani sofferenze che infligge tuttora ai palestinesi. Le truppe britanniche iniziano a occupare la Palestina il 31 ottobre 1917, quando sfondano le difese ottomane e avanzano dal Sinai verso il Naqab. Due giorni dopo, il 2 novembre, mentre le sue truppe erano ancora impegnate a distruggere la storica città di Gaza e non avevano ancora occupato Gerusalemme e il resto del paese, il governo britannico dichiara che obbiettivo dell’occupazione della Palestina è la “creazione di una sede nazionale per il popolo ebraico”. Bontà sua, la popolazione autoctona è avvisata del fatto che verrà espulsa dal proprio territorio e sostituita da altri, come peraltro già si sapeva: l’avevano detto tutti i fautori del sionismo e l’aveva scritto nel suo diario il fondatore del sionismo po – litico, Theodor Herzl, ventidue anni prima della famosa dichiarazione del 1917 del ministro britannico Balfour: Tenteremo di trasferire oltre confine la popolazione priva di denaro offrendo un impiego nelle nazioni di transito e al contempo impedendo qualunque possibilità di occupazione nel nostro territorio […] Le espropriazioni e il trasferimento dei meno abbienti debbono essere effettuati con discrezione e circospezione. Il cosiddetto ‘trasferimento’ è una costante del pensiero coloniale sionista fin dai primordi e fino ai nostri giorni. Nel 1927, Leo Motzkin, considerato uno dei sionisti più moderati, scriveva: Il nostro pensiero è che la colonizzazione della Palestina debba avvenire in due direzioni: l’insediamento ebraico di Eretz Israel e la ricollocazione degli arabi di Erezt Israel in aree oltre confine.

Il trasferimento di così tanti arabi può all’inizio sembrare economicamente inaccettabile, ma ciò non di meno è pratico. Insediare un villaggio palestinese su un’altra terra, non richiede troppo denaro. È passato un secolo dalla data d’inizio entro cui gli autori di questo libro hanno scelto di circoscrivere gli avvenimenti descritti nei loro saggi: è dal 1917 che la politica della potenza britannica occupante è tesa a conseguire l’obbiettivo di sostituire la popolazione palestinese con coloni provenienti dall’Europa. Un obiettivo che si sviluppò con rapidità nel corso del periodo del Mandato e che ancora oggi si reitera con lo Stato d’Israele seguendo quattro costanti direttive generali relative ai seguenti aspetti: a. popolazione: l’immigrazione sionista doveva essere incoraggiata fino a raggiungere una quota di popolazione sufficiente a modificare l’equilibrio demografico del paese a scapito degli autoctoni; b. territorio: si doveva agevolare il trasferimento della proprietà della terra a favore dei coloni con la costruzione di insediamenti coloniali e, per contro, con la demolizione di quanti più edifici esistenti fosse possibile, in modo da modificare l’assetto architettonico urbano con l’obiettivo di cancellare le testimonianze storiche della cultura palestinese; c. economia: l’autorità mandataria promuoveva qualsiasi attività economica dei coloni, ostacolava invece le attività dello stesso tipo svolte dalla popolazione autoctona; d. gli armamenti e la repressione: l’autorità mandataria britannica si impegnava a organizzare un potente esercito sionista e, di contro, reprimeva con forza qualsiasi manifestazione o sintomo di protesta da parte dei palestinesi.

Le costanti della politica coloniale britannica, fino ad arrivare alla pulizia etnica della Palestina e la conseguente creazione dello Stato d’Israele, sono gli stessi assi portanti che hanno guidato la politica di tutti i governi israeliani fino a oggi. Dopo un secolo di guerre e di occupazione, la conseguenza è che: a. la consistenza della popolazione ebraica è passata dal 3% del 1917 al 30% del 1947- 48, anni in cui il 70% dell’intera popolazione palestinese è stata cacciata via dal 78% del territorio, divenuto Stato d’Israele. Oggi la popolazione ebraica israeliana raggiunge poco meno del 50% dell’intera popolazione nell’intero territorio palestinese. Gli ebrei ashkenaziti provenienti dall’Europa e dall’America rappresentano meno del 20% della popolazione e ciò nonostante tutto il potere è nelle loro mani. In altre parole l’obbiettivo sionista è stato raggiunto solo parzialmente e ciò spiega l’accanimento israeliano contro Gaza, con continui bombardamenti, l’uccisione di giovani e giovanissimi palestinesi, il muro dell’apartheid e così via.

Il risultato è che la cosiddetta ‘questione demografica’ non si prospetta a favore di Israele e che la potenza coloniale occupante non è riuscita a ‘rimuovere’ gli ‘indigeni’; b. al momento dell’occupazione britannica della Palestina, nel 1917-18, la totalità del territorio era palestinese, proprietà di privati o del demanio, eccetto alcune fattorie la cui proprietà ufficialmente era di cittadini ebrei privati dietro i quali si nascondeva l’Organizzazione sionista. Al momento della proclamazione dello Stato d’Israele, nel 1948, il 5,6% del territorio palestinese era stato acquisito dall’Organizzazione sionista, in gran parte come donazione dell’amministrazione mandataria britannica di terre demaniali che erano servite per la creazione di insediamenti coloniali. Oggi l’intero territorio palestinese è sotto il controllo militare israeliano, mentre continua sempre più intensa l’attività di appropriazione delle terre palestinesi e la costruzione di nuovi in – sediamenti riservati solo ai coloni israeliani. Non essendo riuscita a rimuovere gli ‘indigeni’, Israele controlla il loro territorio, ma non ne ha il possesso legittimo o meglio, il possesso è legittimato dal solo ‘diritto di conquista’; c. col massiccio sostegno statunitense ed europeo Israele ha potuto sviluppare un’economia basata sull’industria, bellica e della sicurezza, della quale vende i prodotti in tutto il mondo.

L’economia palestinese, divenuta un’economia di sussistenza in conseguenza della pulizia etnica e del disfacimento della società palestinese, oggi è sostanzialmente controllata da Israele. Nonostante tutto ciò l’economia israeliana resta debole in quanto continua a dipendere dal sostegno degli Stati Uniti e dei Paesi Nato; la sua produzione di armi ha bisogno di fomentare le guerre e nello stesso tempo la produzione sicuritaria deve alimentare il terrorismo. Se così non fosse, cesserebbero le ragioni di questi due settori produttivi; d. l’esercito israeliano ha raggiunto un alto livello tecnologico e di professionalità, con una capacità di annientare vite umane paragonabile a quella statunitense o comunque delle grandi potenze mondiali; la popolazione palestinese era e resta disarmata, tranne forse nel caso della milizia di Hamas, nella Striscia di Gaza, che però si trova sotto l’assedio israeliano ed egiziano da oltre dieci anni. Nonostante l’enorme squilibrio di forze, l’esercito israeliano non è riuscito a piegare Gaza e nemmeno a stroncare le continue manifestazioni di protesta che si svolgono in tutto il territorio. Il breve excursus sul silenzio che avvolge il “problema israelo-palestinese”, è motivato dal carattere di colonialismo d’insediamento su cui si fonda lo Stato di Israele. A questa conclusione si arriva se si constata e si prende atto che la politica coloniale in Palestina ha creato un sistema di apartheid simile a quello dei razzisti bianchi in Sudafrica. Eminenti sudafricani che subirono e combatterono la discriminazione razziale nel loro paese, tra cui l’arcivescovo Desmond Tutu, nel visitare la Palestina sono stati colpiti dal modello dell’apartheid israeliano: secondo il loro parere ancora più ‘scientifico’ e feroce di quello sudafricano. Non è un caso che nel 2005 la società civile palestinese, ispirandosi alla lotta contro l’apartheid in Sudafrica, abbia lanciato un appello per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro il sistema etnocratico israeliano, invitando tutti, in primo luogo gli europei, ad agire prima che sia troppo tardi, prima che il modello israeliano venga imitato e applicato in molti suoi aspetti negli stessi paesi che hanno prodotto il colonialismo e che continuano a sostenere e foraggiare il sionismo.

Fonte: Ufficio Stampa

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